TATTICHE DELLA DIPLOMAZIA

Yevgeby V. Tarle
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 9 dicembre 2014
OÙ NOUS SOMMES EN HIVER
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Da qualche tempo sembra proprio che tutti ritengono che la risposta efficace agli attuali venti di guerra sia la “diplomazia”. Ecco un assaggio (trovato in soffitta) del suo storico modo di essere e di operare.

LA TATTICA DELLA DIPLOMAZIA BORGHESE [1]
Parte Prima

Lo studio dei documenti storici, insieme alla osservazione e alla analisi dei fatti dell'attualità internazionale, permette di discernere un certo numero di manovre tattiche utilizzate, ora alternativamente ora simultaneamente, in quella lotta diplomatica ininterrotta che precede i conflitti armati, succede loro e prosegue anche, sebbene più lenta, durante le ostilità.
Coloro che si occupano della storia della diplomazia sono tenuti a conoscere i suoi metodi e la sua tattica. Già nella metà del XIX° secolo, Engels diceva che era venuto il momento, per coloro che combattevano nell'arena politica, di istruirsi sull'arte militare dato il suo ruolo capitale nella lotta per un avvenire migliore dell'umanità. E lo stesso Engels, uno dei creatori del socialismo scientifico, finì con l'estendere le sue conoscenze della storia e della tecnica militare al punto che i suoi articoli anonimi attirarono l'attenzione degli specialisti che li attribuirono a un ufficiale superiore.
E' compito di ogni lettore conoscere le manovre più caratteristiche della diplomazia borghese. Chi si propone di servire il suo paese sul terreno diplomatico sarà, naturalmente, tenuto a studi più seri. Infatti, come per l'arte militare, i consigli di Engels valgono per la lotta diplomatica: è infatti indispensabile conoscere meglio che sia possibile la tattica e i trucchi dell'avversario tanto sul campo di battaglia che nelle controversie diplomatiche. Il lettore troverà qui soltanto una brevissima esposizione delle manovre diplomatiche più in uso, che costituiscono, per così dire, il “motivo dominante” nella storia della diplomazia del mondo capitalista e restano attuali anche nei nostri giorni.
La nostra classificazione dei metodi diplomatici è lungi dall'essere esauriente. Così come nel campo militare, la strategia e la tattica della diplomazia del mondo capitalista, sono molto varie ed individuali. E se non è facile tracciare le linee generali di un sistema diplomatico calcolato su un periodo più o meno lungo, molto più difficile è l'analisi circostanziata della tattica diplomatica, insidiosa e multiforme, i cui scopi e metodi cambiano talvolta di giorno in giorno e molto spesso nello spazio di ventiquattro ore.
I metodi principali, di cui più oltre si troverà la caratteristica, sono utilizzati dalla diplomazia per due scopi: per camuffare i suoi piani e simulare quelli cui in realtà non si mira.
La leggenda attribuisce a uno dei grandi maestri dell'arte diplomatica, il cancelliere del regno di Svezia nel XIX° secolo, Axel Oxenstiern, il detto secondo cui la diplomazia avrebbe avuto in ogni tempo al suo servizio due docili schiavi: la simulazione e la dissimulazione, si simula ciò che non è, si dissimula ciò che è; avrebbe precisato il diplomatico citando la ben nota definizione latina: «Simulantur quae non sunt, quae sunt vero dissimulantur». I diplomatici non solo del XVII° secolo, ma anche quelli del XVIII°, XIX° e XX° secolo nella loro attività ricorrevano largamente ai servizi. di questi due “schiavi”; essi affermavano ciò che non esisteva e dissimulavano ciò che esisteva, praticando così su larga scala la simulazione e la dissimulazione.
Non è senza interesse esaminare alcuni casi tipici in cui questa doppia tattica fu messa in circolazione. 

L’aggressione dissimulata con i motivi della difesa 

Innanzi tutto occorre sottolineare che la manovra di camuffamento più in uso, per non dire la più banale, è quella di giustificare la guerra con i bisogni di "autodifesa".
Federico II°, uno dei diplomatici tedeschi più intelligenti e più cinici, non sfuggì ad una caratteristica propria a tutti gli uomini politici del suo paese, ivi compreso Guglielmo II°. Questa stessa caratteristica raggiunse una forma quasi mostruosa nella pratica diplomatica hitleriana. Si tratta soprattutto del bisogno invincibile che provano i capi politici tedeschi di cercare una giustificazione teorica agli scopi che essi si propongono e ai mezzi impiegati in politica estera. Ma -appunto perché era intelligente, Federico II° non divulgava mai le sue teorie; egli si accontentava di annotarle "per suo proprio uso" o di inserirle nei suoi "testamenti intimi" per i posteri; infatti i suoi appunti non erano affatto destinati allo sguardo indiscreto degli estranei.
Questa è, fra l'altro, l'origine del curioso manoscritto in lingua francese, che porta la data del 1752 circa ed intitolato i «Rêves politiques» (come si sa il re di Prussia si esprimeva meglio in francese che nella lingua materna). Il manoscritto non fu mai pubblicato per intero ed alcune sue parti rimangono inedite. Malgrado il titolo di Anti-Machiavelli che Federico aveva scelto per le «Rêves politiques» e gli altri scritti venuti alla luce dopo la sua morte, egli era un discepolo fedele del pensatore fiorentino. I principi di Machiavelli rivestono nel re di Prussia una forma precisa e senza equivoco. Se una terra è di vostro gusto, anche se disponete di pochi mezzi necessari, inviate le vostre truppe ad occuparia e poi, davanti al fatto compiuto, si troveranno sempre dei giuristi e degli storici che proveranno i vostri diritti incontestabili su questo territorio. Questo pensiero, Federico II° l'aveva ripreso sotto tutte le forme possibili ed immaginabili, e finì col prendere valore di assioma per i successori sul trono prussiano e in seguito della Germania.
« Un Hohenzollern non rinuncia mai a ciò di cui una volta si è impossessato », diceva Guglielrno I°.  La stessa tesi, sotto una forma ancora più brutale e impudente, ritornava costantemente nei discorsi di Goebbels, di Dietrich e di altri hitleriani dopo che nel 1938 la Germania fascista si dedicò al saccheggio sistematico degli Stati vicini.
Un esempio classico di menzogna premeditata, destinata a giustificare con una pretesa «legittima difesa» la violazione di un impegno solenne, ci è fornita dalla storia dell'invasione del Belgio da parte dei tedeschi nell'agosto '14.
Come è noto, il re di Prussia Federico Guglielmo III° aveva firmato il trattato di garanzia del 19 aprile 1839, che obbligava le parti contraenti a «rispettare l'indipendenza e la neutralità» del Belgio. Inoltre, con una convenzione particolare, conclusa l’11 agosto 1870 con l'Inghilterra e il Belgio, Guglieimo I° prese l'impegno solenne, in caso di invasione del Belgio da parte di una terza potenza o, in maniera più generale, in caso di violazione della sua neutralità, di cooperare con l'Inghilterra e di usare l’esercito e la marina tedeschi per difendere questa neutralità.
Questo non impedì al governo tedesco di indirizzare senza ombra di ragione, il 2 agosto 1914, alle sette di sera, al ministro degli Affari esteri belga, Davignon, la famosa dichiarazione per cui i tedeschi pretendevano di aver avuto sentore delle «intenzioni » dei francesi di violare la frontiera belga, il che li metteva - dicevano - nella necessità imperiosa di precedere il nemico e di occupare il territorio belga. Mai i francesi avevano concepito il progetto che fu loro attribuito, e nessun sentore di questo genere era potuto giungere ai tedeschi. La spiegazione era più semplice: secondo il piano strategico di Schlieffen,, elaborato una quindicina di anni prima, il rapido successo di una veloce aggressione militare contro la Francia aveva bisogno del passaggio delle truppe attraverso il Belgio. E all'indomani della dichiarazione del 3 agosto, le truppe tedesche invadevano il territorio belga.
L'ulteriore evoluzione degli avvenimenti è particolarmente caratteristica dei metodi diplomatici tedeschi. Malgrado gli indubbi vantaggi strategici della operazione, l'invasione del Belgio comportava un grave rischio: quello di spingere l'Inghilterra, fino allora indecisa, a dichiarare la guerra alla Germania. Cosciente del pericolo, il cancelliere Bethmann-Hollweg tentò di attenuare la disastrosa impressione che aveva prodotto in Europa la violazione della neutralità belga. Così, il 4 agosto, il cancelliere dall'alto della tribuna del Reichstag, riconobbe che una a ingiustlzia era stata commessa il verso il Belgio, ma, aggiunse, che nessuno poteva farci niente poiché la «necessità non conosce legge». La Germania era stata «costretta» a compiere questo atto illegittimo perché era in causa la sua «sicurezza». Però alcune ore dopo questo discorso, i tedeschi constatarono l'inutilità dell'appello di Bethmann-Hollweg: la sera dello stesso giorno l'ambasciatore inglese, sir Edward Goschen, rimise al cancelliere tedesco un ultimatum: o evacuare il Belgio o la guerra con l'Inghilterra. Il termine per la risposta: sei ore. Il cancelliere tedesco era disorientato: persuaso che l'Inghilterra non avrebbe reagito, il mattino non aveva ancora nascosto il suo trionfo; ora, sotto il colpo della sorpresa, egli perdeva la calma e faceva dei ragionamenti che non avrebbe fatto in tempi normali. Quando Gorschen gli ricordò che la Germania aveva garantito con la sua firma la neutralità belga che ora essa violava, il cancelliere perse la calma: «Voi volete dire che a causa di un pezzo di carta, avete l'intenzione di fare la guerra a un paese che vi è apparentato con vincoli di sangue?», grido egli con rabbia. Nella notte dal 4 al 5 agosto, alle 11 di sera, l'Inghilterra dichiarò la guerra alla Germania.
Ma la questione non terminò qui. «L'appelllo franco e sincero» di Bethmann-Hollweg si era dimostrato inoperante. La diplomazia tedesca concepì una nuova teoria destinata a giustificare l'invasione del Belgio. «I bisogni di ordine militare prevalgono sulle convenzioni diplomatiche» - dichiarano i tedeschi; l'occupazione del Belgio è dunque perfettamente legittima ed è superfluo «provare» la complicità militare anglo-belga. Queste «prove» i tedeschi pretesero di averle trovate nei documenti durante il saccheggio degli archivi belgi. Va da se che queste «prove» non esistevano. «Non vi è alcun bisogno di argomenti di questa specie», si dichiara in definitiva nella Segreteria di Stato a Berlino quando si constata che «queste giustificazioni» non soddisfano nessuno: dal momento che la Germania è in guerra, essa ha il diritto di fare tutto ciò che è necessario per vincere. E da che - per la prima volta nella storia della diplomazia - questa tesi fu enunciata con chiarezza e franchezza, si verificò ciò che aveva constatato, nella metà del secolo XVIII°, Federico il Grande. Le sue osservazioni furono così confermate nella maniera più chiara sotto i suoi successori, in occasione della questione belga.
(continua) L'eminente professore di diritto, Laband, una personalità della scienza giuridica tedesca, si affrettò a proiettare la luce delle sue conoscenze «germaniche»  sulla spinosa inquietante questione della neutralità belga. Nel libro «L'amministrazione del Belgio durante l'occupazione militare», il professore Laband afferma che durante la guerra, le autorità militari tedesche non sono tenute ad osservare gli «accordi e le convenzioni» basati sul diritto; la loro condotta è dettata unicamente dalle circostanze e dai bisogni del momento. Del resto, la guerra non deve conoscere leggi imperative o impegni inviolabili; restano in vigore soltanto «i costumi e gli usi di guerra» che, d'altronde, variano e si evolvono secondo la volontà del capo militare. La tesi di Laband trovò numerosi adepti fra i giuristi tedeschi. In una raccolta di articoli intitolata «La verità sulla guerra», Kohler, professore dell'Università di Berlino, scriveva : «Lo Stato ha il diritto assoluto di proteggere i suoi interessi sacrificando quelli degli altri paesi, ivi compresi i paesi neutrali». Kohler scriveva l'articolo alla vigilia della battaglia della Marna, in un momento cioè in cui la vittoria tedesca sembrava cosa certa; perciò egli credeva che potesse dire tutto, senza alcun velo di pudore : «Il diritto deve inchinarsi davanti al fatto ed eclissarsi davanti al vincitore» - dichiara; il solo fatto conta, i «factum valet» (la formula latina era destinata a conferire alla conclusione del giurista una impronta «scientifica»).
Il 23 agosto 1914, cioè tre settimane dopo la invasione del Belgio, le autorità di occupazione fucilarono nel sobborgo di Tamine 400 belgi, ne bruciarono vivi 250 e incendiarono 264 case.
Queste gesta gloriose furono commentate dai rappresentanti diplomatici tedeschi nei paesi neutrali; essi non lasciavano prevedere un avvenire più calmo nel caso in cui il popolo belga non avesse compreso la necessità di «sottomettersi alla legge di guerra tedesca».
Questa legge, di cui i giuristi tedeschi avevano concepito la base teorica, fu implacabilmente applicata nel Belgio per tutti i quattro anni di occupazione, fino al giorno in cui i tedeschi furono cacciati dal territorio belga da essi insanguinato e devastato.
La diplomazia hitleriana portò un elemento nuovo alla giustificazione diplomatica dell'aggressione. Essa si preoccupò di avvisare l'opinione pubblica che vi erano dei casi in cui l'aggressore poteva sic et simpliciter fare a meno di questa giustificazione. Così avvenne, per esempio, l'aggressione tedesca contro l'URSS.
Quale procedimento bisognava scegliere per scatenare la guerra contro l'URSS, era la domanda che si poneva insieme con il suo partito Ernst Hermann Bockhoff, dottore in diritto e redattore capo della «National-Sozialinatshefte», portavoce del partito nazista. Nel suo libro «L'URSS è un soggetto di diritto intemazionale?» l’eminente giurista hitleriano rispondeva negativamente a questa domanda retorica. No, l'URSS non è uno Stato, è soltanto un aggregato di nomadi che perseguono scopi rivoluzionari e distruttivi. Per difendersi contro i barbari «bolscevichi», non importa sapere da quale parte sta il diritto per violare, senza avvertenze né ultimatum, le frontiere dell'URSS in qualsiasi momento e per invadere il suo territorio. «Non si avrebbe ragione – trattandosi dell’URSS - di intervento illegittimo: qualsiasi guerra contro l’URSS qualunque sia il pretesto e l'istigatore, è pienamente legittima». E' in questi termini che l'eminente giurista hitleriano formulava la sua tesi. Il compito che in realtà gli incombeva consisteva nel dare un aspetto pseudogiuridico alla concezione dello stato maggiore, cioè che contro l'URSS doveva essere scatenata il giorno stesso in cui sarebbe stata decisa, senza perdere tempo in ultimatum o in altre formalità. Infatti, secondo le autorità militari del Reich, non si poteva aver ragione dell'URSS che attaccandola di sorpresa. La diplomazia e i giuristi tedeschi non facevano dunque che giustificare in anticipo la tattica dello stato maggiore.

L’aggressione camuffata da motivi “disinteressati”

Dopo la larga utilizzazione del camuffamento dell'aggressione con la « autodifesa », viene quella che consiste nel giustificare l'atto di violenza con motivi «disinteressati»: lotta per la verità, la libertà, la umanità ed altre idee altrettanto nobili.
La storia conosce numerosi esempi di dissimulazione di tal genere. Tuttavia, nell'epoca moderna, la diplomazia vi porta più finezza che nel passato, come dimostra l'esempio di Oliviero Cromwell, lord protettore della repubblica d'Inghilterra. Nel 1651 egli propose ai Paesi Bassi di lasciarsi inglobare per meglio combattere gli errori del cattolicesimo. Cromwell si incaricava generosamente di assicurare il governo supremo della futura potenza protestante. Quando i Paesi Bassi non si lasciarono tentare da questa allettante offerta, Cromwell scatenò contro di essi una guerra navale.
Alla fine del XVIII° secolo, nel 1791 e 1792, furono l'Austria e la Prussia ad invocare fini a “ideologici” per giustificare la loro aggressione contro la Francia rivoluzionaria.
A partire dal 1792 e soprattutto dal 1793 anche l'Inghilterra seguì l'esempio. In realtà, la dinastia austriaca mirava soprattutto a strappare alla Francia dei territori sulla riva sinistra del Reno; il re di Prussia, Federico Guglielmo II°, mirava all'Alsazia; quanto a William Pitt, primo ministro di Gran Bretagna, sperava di mettere le mani sulle colonie appartenenti alla Francia ed annientare il suo commercio marittimo. Ma tutti e tre proclamavano all'unisono che era loro sacro dovere difendere i troni e gli altari contro il moto barbarico che veniva dalla Francia e salvare la umanità dal contagio anarchico, ateo, eec. La voce che copriva le altre era quella dell'imperatrice di Russia, Caterina IIa, che invitava i monarchi e tutti gli uomini ben pensanti ad unire i loro sforzi per strangolare in nome di tutti i valori sacri dell'umanità il mostro rivoluzionario francese.
La stessa Caterina IIa, che aveva i diplomatici più fini e più abili del secolo, si era ben guardata dall'inviare i suoi uomini a combattere in Francia. Se tuttavia essa predicava instancabilmente la sua «crociata» antirivoluzionaria, era soprattutto per spingere nella guerra il re di Prussia e l'imperatore d'Austria, i suoi due concorrenti nella spartizione del bottino polacco. Essa vi riuscì brillantemente. Durante la seconda e terza spartizione della Polonia (1793 e 1795), i prussiani e gli austriaci avevano le mani legate nella guerra contro i rivoluzionari della Francia. Gli obiettivi della zarina furono così raggiunti. Del resto, non si potrebbe dubitare dell'odio sincero che essa nutriva verso la rivoluzione né del suo ardente desiderio di vederla soffocata al più presto.
L'ultimo esempio in ordine cronologico di un camuffamento dei fini annessionistici con motivi «ideologici», appartiene alla storia della Germania moderna. A piu riprese, i tedeschi si erano sforzati di travestire la cupidigia che li spingeva ad annettere terre russe con un sentimento disinteressato: il desiderio di difendere la «civiltà contro il flagello distruttivo del bolscevismo». L'origine della questione risale a molto lontano, ai giorni della fine della guerra mondiale e ancora prima dell'armistizio del 1919. La vigilia della firma del trattato di Versailles, il generale Ludendorff rivolse a Clemenceau, per mezzo di una persona di fiducia in Svizzera, la proposta di formare un esercito misto franco-tedesco il cui alto comando sarebbe stato affidato al maresciallo Foch, attivamente coadiuvato dall'autore del progetto. Questo esercito sarebbe penetrato in Russia, avrebbe rovesciato il potere sovietico e avrebbe ristabilito la monarchia. In riconoscimento dei suoi alti meriti di fronte al mondo civile, la Germania avrebbe ricevuto l'assoluzione, cioè le riparazioni sarebbero state annullate e una parte del territorio russo sarebbe stato annessa da Berlino. Da parte sua la Francia avrebbe ricominciato a prendere gli interessi delle aziende russe e avrebbe profittato sotto tutti i rapporti della vittoria sui sovieti. Clemenceau non dette nessuna risposa al progetto. Come si dice, egli si sentì offeso della opinione poco lusinghiera che Ludendorff sembrava avere della sua intelligenza: era infatti evidente che tutto ciò non aveva altro scopo che rafforzare la Germania e renderla di nuovo pericolosa per i suoi vicini.
Il progetto di Ludendorff fallì. Ma l'idea di una invasione dell'URSS sotto l'egida delle potenze occidentali rimase ancorata nell'animo degli imperialisti tedeschi che cercavano all'Est compensi alla disfatta dell'Ovest. Il progetto fu di nuovo posto con rinnovata energia sul tappeto nel 1933 dalla Germania hitleriana. Gli obiettivi cui mirava erano formulati con una brutalità senza precedenti. Occorreva un accecamento volontario per credere che la banda nazista, arrivata al potere in Germania, volesse effettivamente «salvare» la civiltà dai «barbari» bolscevichi.

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[1] - YEVGENY V. TARLE (1950), da La tattica della diplomazia borghese, Edizioni Sociali 1952, pp. 5-15.